Oggi siamo infatti sotto l’influsso di una cultura che esorcizza, mettendola a tacere, la sua paura della morte, quando si tratta della morte personale, sottraendo il moribondo al suo ambiente familiare nella gestione medicalizzata della fine della vita, rassegnandosi ad accettarla come qualcosa di naturale, oppure la spettacolarizza quando si tratta di un evento lontano geograficamente ed affettivamente, o ancora cerca nei modi più diversi di anestetizzare l’assurdità della vita.
Alexander Schmemann parte dalla costatazione che, proprio nella morte e nel morire, gli antichi cristiani manifestavano una comprensione della vita non semplicemente come esistenza biologica, ma come dono di Dio che crea l’uomo rendendolo capace di partecipare della sua stessa vita. Per questo, il modo in cui si muore rivela ciò che per noi è la vita. Perciò, fin dall’inizio, i veri credenti non hanno cercato la vita in sé, né si sono sottratti alla morte, quando accadeva che dovevano morire. Ma cercavano Cristo, che dà senso alla vita e alla morte, e assicura la vita con il Padre. Allora anche la morte è vissuta come un incontro, come l’incontro ultimo e decisivo con ciò che “vivifica” la vita, che si rivela in essa e la rende un dono.
Titolo originale: The Liturgy of Death
Traduzione: Maria Campatelli
Corpo, Esequie, Rito funebre, Schmemann,



