Approfondimento delle letture della liturgia
Profundización de las lecturas de la liturgia
Poglobitev Božje besede

[SEMI] Santissima Trinità (Anno A) 2

ITALIANO

“La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi” (2Cor 13,13).

Questa parola di san Paolo è tornata ad essere l’inizio della liturgia.

Infatti, anche la Chiesa bizantina comincia la santa liturgia cantando: “Benedetto il Regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Si entra nella liturgia attraverso questa vita trinitaria.

La liturgia è il dono di questa vita, il nutrimento di questa vita, è la realizzazione di questa vita e ci abilita affinché noi diventiamo la manifestazione di questa vita.

È un dono e si diventa dono.

Questa formula trinitaria, che è anche quella battesimale, rimane lo sfondo della nostra esistenza cristiana, nel senso che è il compimento e anche il contenuto della nostra missione.

Noi siamo mandati, Cristo risorto manda, e questa è la missione.

Forse è un po’ caduta in oblio questa verità spirituale, perché preferiamo parlare del “segno della croce”.

Un prete mi diceva che all’inizio del suo ministero era convinto che il “segno della croce” esprimesse la verità della vita ricevuta al battesimo, ma poi, andando avanti nel lavoro pastorale, si è reso conto che non è affatto così. Ha infatti cominciato a chiedere direttamente alla gente cosa per loro fosse la croce, il Crocifisso, e si è reso conto che nessuno vedeva nella croce il passaggio alla nostra vita nuova, cioè il dono che ci apre alla risurrezione di un’esistenza nuova.

Tutti si fermavano sullo sfondo della via crucis, dove si mette in evidenza il dolore, il sentirsi coinvolti in modo penitenziale, da colpevoli.

Il segno della croce è proprio il passaggio, l’ingresso, la rinascita, la risurrezione, il risveglio dopo la morte battesimale, perché la croce è il luogo della suprema manifestazione di chi è veramente Dio e di chi è veramente l’uomo.

Così ripeteva Berdjaev.

Lì si manifesta il Dio che si dona, che si affida. E allo stesso tempo si manifesta l’uomo che lo rifiuta, che lo uccide. Ma in Cristo si manifesta anche l’uomo che nel Figlio di Dio diventa dono, accoglienza totale della volontà del Padre. La croce diventa il luogo della “divinoumanità, della nostra partecipazione a questo modo filiale di vivere, proprio grazie all’azione dello Spirito Santo.

La morte di Cristo, il Crocifisso, è la via della nostra rinascita, della nostra risurrezione.

Paolo spiega con precisione questa grande verità: con Cristo crocifisso è stato crocifisso anche “il nostro uomo vecchio” (cf Rm 6,6). Altrove lo dice in modo ancora più esplicito: “Sono stato crocifisso con Cristo e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato sé stesso per me” (Gal 2,19-20).

Allora la croce per noi cristiani è il passaggio in Cristo dalla schiavitù del peccato alla libertà dei figli di Dio e dunque ci si risveglia in questa risurrezione, con la vita dello Spirito Santo, che si condensa dentro di noi nella prima parola che possiamo pronunciare da neofiti, da neonati: “Abbà! Padre!” (Gal 4,6) – papà.

È avvenuto un enorme cambiamento. Da questa novità di vita ha inizio, legata a questa prima parola, una nuova intelligenza, un nuovo modo di conoscere che è quello dell’amore.

Nasce l’uomo nuovo, che ha esperienza dell’amore di Cristo, con un’intelligenza nuova, che sorpassa ogni conoscenza, perché si è “ricolmi di ogni pienezza di Dio” (cf Ef 3,19).

Si tratta di una conoscenza non più separata dall’amore, dalla comunione, perché è nello Spirito Santo, che è il Signore della comunione. Una conoscenza di sé e di Dio non separabile dall’amore. E, quando si dice “Padre”, ci si sente in comunione con gli altri, perché lo stesso Spirito che in noi grida “Abbà” è lo Spirito della comunione, che ci fa dire “Padre nostro”, dove la parola stessa dice la mia piena realizzazione nella comunione. Senza lo Spirito Santo, l’aggettivo “nostro” è in antagonismo, in conflitto, in antitesi con “mio”. Invece, nello Spirito Santo il “mio” è pienamente realizzato nel “nostro”. E “nostro” è veramente il Padre.

Come l’io non precede l’essere figlio, così l’essere figlio realizza la sua vita, realizza il proprio io in comunione con gli altri. Non è che io prima sono e poi divento figlio di Dio. Io sono morto. L’io che era legato a sé stesso, segnato dal peccato di Adamo è morto, non esiste più, è stato sepolto con Cristo sepolto e si sveglia nel passaggio della tomba.

“Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4): è l’io che si riconosce in Cristo, come figlio di Dio, figlio nel Figlio.

Il figlio ha un io che si realizza pienamente in comunione con gli altri, perché è l’io del Figlio, e dunque si realizza in comunione con i fratelli e le sorelle (cf 1Gv 1,7).

Grazie alle varie filosofie e alle tante strutture che abbiamo assunto dal mondo lungo la storia, abbiamo spinto nell’oblio la comunione, dunque abbiamo spinto nell’oblio anche la relazione.

Abbiamo spostato l’amore dalla nostra ontologia, dalla nostra origine, alla meta da raggiungere e abbiamo abbracciato un cristianesimo individuocentrico, dove ci troviamo “io e il mio Gesù”.

Poi, per la legge del pendolo, abbiamo spinto verso la comunità, verso l’essere insieme, verso l’essere una sola cosa, che però non era espressione della comunione, ma l’esito di regole, della disciplina, di strutture organizzate, e soprattutto del nostro impegno.

Ma, se dalla persona in senso teologico trinitario, comunionale, torniamo di nuovo all’individuo come espressione della nostra natura, allora stiamo rianimando un cadavere, quell’uomo che era morto nelle acque battesimali.

La storia testimonia che questa rianimazione dell’uomo secondo la natura, purtroppo, è avvenuta. Si rianima un uomo secondo la natura, e allora è impossibile pensarlo se non idealisticamente.

Realmente non è possibile considerare l’uomo secondo la natura se non partendo da ciò che l’uomo realmente è, e cioè un essere ferito, destinato a morire, e dunque in preda alla preoccupazione per sé stesso. Non possiamo considerare l’uomo come se il terzo capitolo della Genesi non esistesse. Con il battesimo, quell’uomo è stato distrutto, ma noi cerchiamo di ricostruirlo (cf Gal 2,18).

Si comincia quindi a far leva sul nostro impegno religioso e su tutti gli altri impegni. Ma è chiaro che mai nessuno diverrà figlio grazie a tali impegni, perché nessuno è mai stato reso figlio dalla legge, né mai nessuno è stato giustificato (cf Gal 2,16).

Per questo modo di procedere oggi avvertiamo siccità, sterilità, stanchezza, nervosismo, e la gente comincia ad andarsene. Tanti dicono che, di fatto, tra la Chiesa e il mondo non c’è poi una grande differenza, quando non arrivano addirittura ad affermare: guarda come si trattano male tra di loro e come vivono male!

Rianimando l’uomo secondo la sua natura, si rianima l’uomo ferito, caduto, in cammino verso la morte. Di conseguenza, scatta tutto un meccanismo: come aiutarlo, come curarlo, cosa dobbiamo fare per migliorare la sua posizione?

Se la Trinità non è questione di vita, della vita nuova e della sua intelligenza, che è agapica, allora si tratta di un’ideologia, che prima o poi stanca ed esaurisce la gente, compresi quelli che la promuovono.

Invece si tratta di Cristo, che è una grazia: è apparsa la grazia “che porta la salvezza a tutti gli uomini” (Tt 2,11).

È il dono che ci fa passare attraverso la morte ad un’esistenza nuova, da figli di Dio, di un Dio che è Padre della misericordia e dell’amore eterno. Un dono che mi fa essere figlio, quello amato, perché la vita che mi è stata consegnata proprio nell’ora della morte (cf Gv 19,30) è la vita della comunione, del dono di sé.

 

SEMI è la rubrica del Centro Aletti disponibile ogni venerdì.
Ogni settimana, oltre all’omelia della domenica in formato audio, sarà disponibile sul sito LIPA un approfondimento delle letture della liturgia eucaristica domenicale o festiva.


 

ESPAÑOL

“La gracia del Señor Jesucristo, el amor de Dios Padre, y la comunión del Espíritu Santo estén siempre con todos vosotros” (2Cor 13,13).

Estas palabras de San Pablo han vuelto a ser el inicio de la liturgia.

De hecho, también la Iglesia bizantina inicia la liturgia cantando: “Bendito sea el reino del Padre, del Hijo y del Espíritu Santo”. Se entra a la liturgia por medio de esta vía trinitaria.

La liturgia es el don de esta vida, el alimento de esta vida, es la realización de esta vida y nos da la capacidad de convertirnos en la manifestación de esta vida.

Es un don que nos convierte en don.

Esta fórmula trinitaria que es también la bautismal, permanece el fundamento de nuestra existencia cristiana, en el sentido de que es el cumplimiento y el contenido de nuestra misión.

Nosotros somos enviados, Cristo resucitado envía y esta es la misión.

Tal vez esta verdad espiritual cayó en el olvido porque preferimos hablar del “signo de la cruz”.

Un sacerdote me decía que al inicio de su ministerio estaba convencido de que “el signo de la cruz” exprimía la verdad de la vida recibida en el bautismo, pero después, trabajando en la pastoral, se dio cuenta de que este no era el caso. De hecho, empezó a preguntarle directamente a la gente que era para ellos la cruz, el crucificado, y se dio cuenta de que ninguno veía en la cruz el paso a la vida nueva, es decir, el don que nos abre a la resurrección de una existencia nueva.

Todos se quedaban con una visión del via crucis, donde se acentúa el dolor, el sentirse dentro de un modo penitencial, de culpables.

El signo de la cruz es justo el paso, el ingreso, el volver a nacer, la resurrección, el despertar después de la muerte bautismal, porque la cruz es el lugar de la suprema manifestación de quién es verdaderamente Dios y de quién es verdaderamente el hombre. Así repetía Berdjaev.

Ahí se manifiesta el Dios que se dona, que se confía. Y al mismo tiempo se manifiesta el hombre que lo rechaza, que lo asesina. Pero en Cristo se manifiesta también el hombre que se convierte en el Hijo de Dios, en don y acogida total de la voluntad del Padre. La cruz se convierte el lugar de la “divinohumanidad”, de nuestra participación a este modo filial de vivir, justo gracias a la acción del Espíritu Santo.

La muerte de Cristo, el crucificado es la via de nuestro volver a nacer, de nuestra resurrección.

Pablo explica con precisión esta grande verdad: con Cristo crucificado, también fue crucificado “nuestro hombre viejo” (cf. Rm 6, 6). En otro lado lo dice incluso más explícito: “Fui crucificado con Cristo y no vivo más yo, sino Cristo vive en mí. Y esta vida que yo vivo en el cuerpo la vivo en la fe del Hijo de Dios, que me amó y se entregó por mí” (Gal 2, 19-20).

Ahora la cruz para nosotros cristianos es el paso en Cristo de la esclavitud del pecado a la libertad de los hijos de Dios y por ello nos despertamos en esta resurrección, con la vida del Espíritu Santo que se condensa dentro de nosotros en la primera palabra que podemos decir de recién nacidos: “¡Abba, Padre!” (Gal 4, 6) – papá.

Ha pasado un cambio enorme. Desde esta novedad de vida tiene inicio, junto con esta primera palabra, una nueva inteligencia, un nuevo modo de conocer que es aquel del amor.

Nace el hombre nuevo, que tiene experiencia del amor de Cristo, con una inteligencia nueva, que supera todo conocimiento, porque está “repleta de toda plenitud de Dios” (cf. Ef 3, 19).

Se trata de un conocimiento que ya no está separado del amor, de la comunión, porque está en el Espíritu Santo, que es el Señor de la comunión. Un conocimiento de si mismo y de Dios inseparable del amor. Y cuando se dice “Padre”, nos sentimos en comunión con los otros, porque el mismo Espíritu que grita en nosotros “Abba” es el Espíritu de la comunión que nos hace decir “Padre nuestro”, donde la palabra misma dice mi plena realización en la comunión. Sin el Espíritu Santo, el adjetivo “nuestro” está en antagonismo, en conflicto, en antítesis con “mío”. En cambio, en el Espíritu Santo el “mío” es plenamente realizado en el “nuestro”. Y “nuestro” es verdaderamente el Padre.

Como el yo no precede al ser hijo, así el ser hijo realiza su vida, realiza el propio yo en comunión con los demás. No es que primero soy y después me convierto en hijo de Dios. Yo estoy muerto. El yo que pertenecía a sí mismo, marcado por el pecado de Adán y muerto, no existe más, fue sepultado con Cristo sepultado y se despierta en el paso de la tumba.

“Por medio del bautismo entonces fuimos sepultados junto a él en la muerte para que, como Cristo fue resucitado de los muertos por medio de la gloria del Padre, así también nosotros podamos caminar en una vida nueva” (Rm 6, 4): es el yo que se reconoce en Cristo, como hijo de Dios, hijo en el Hijo.

El hijo tiene un yo que se realiza plenamente en comunión con los demás, porque es el yo del Hijo, y por ello se realiza en comunión con los hermanos y hermanas (cf. 1Jn 1, 7).

Gracias a las diferentes filosofías y a las varias estructuras que hemos asumido del mundo a través de la historia hemos enviado al olvido la comunión, y por ello hemos enviado al olvido también la relación.

Hemos cambiado el amor de nuestra ontología, de nuestro origen, a la meta por alcanzar y hemos abrazado un cristianismo centrado en el individuo, donde nos encontramos “yo y mi Jesús”.

Después, por la ley del péndulo, hemos dado impulsos hacia la comunidad, hacia el estar juntos, hacia el ser una cosa sola, pero que no era expresión de la comunión, sino el éxito de reglas, de la disciplina, de estructuras organizadas y sobre todo de nuestro esfuerzo.

Pero, si de la persona en sentido teológico trinitario, comunitario, volvemos de nuevo al individuo como expresión de nuestra naturaleza, ahora estamos reanimando un cadáver, aquel hombre que estaba muerto en las aguas bautismales.

La historia da testimonio que esta reanimación del hombre según la naturaleza lamentablemente ha sucedido. Se reanima un hombre según la naturaleza y ahora es imposible no pensarlo idealmente.

Realmente no es posible considerar el hombre según la naturaleza si no se parte de aquello que el hombre es realmente y por ello un hombre herido, destinado a morir, y entonces en la presa de la preocupación por sí mismo. No podemos considerar el hombre como si el tercer capítulo de la Génesis no existiera. Con el bautismo aquel hombre ha sido destruido, pero nosotros tratamos de reconstruirlo (cf. Gal 2, 18).

Se empieza entonces a acentuar nuestro esfuerzo religioso y todo tipo de esfuerzo. Pero es claro que ninguno se convertirá en hijo gracias a tales esfuerzos, porque ninguno se ha convertido en hijo gracias a la ley, ni ninguno ha sido justificado (cf. Gal 2, 16).

Por este modo de proceder hoy hacemos ver sequía, infecundidad, cansancio, nerviosismo y la gente se empieza a ir. Tantos dicen que, de hecho, entre la Iglesia y el mundo ya no hay una grande diferencia, cuando llegan a afirmar: ¡mira cómo se tratan mal entre ellos y como viven mal!

Reanimando el hombre según su naturaleza, se reanima el hombre herido, caído, en camino hacia la muerte. Como consecuencia, se desencadena todo un mecanismo: ¿Cómo ayudarlo? ¿Cómo curarlo? ¿Qué debemos hacer para mejorar su situación?

Si la Trinidad no es cuestión de vida, de la vida nueva y de su inteligencia, que es agápica, entonces se trata de una ideología, que antes o después cansa y agota a la gente, incluidos aquellos que la promueven.

En cambio, se trata de Cristo, que es una gracia: ha aparecido una gracia “que lleva la salvación a todos los hombres” (Tito 2, 11).

Es el don que nos hace pasar a través de la muerte a una existencia nueva, de Hijos de Dios, de un Dios que es Padre de la misericordia y del amor eterno. Un don que me hace ser hijo, amado porque la vida me ha sido entregada justo en la hora de la muerte (cf. Jn 19, 30), es la vida de la comunión, del don de sí mismo.

 

SEMILLAS es una publicación del Centro Aletti disponible todos los viernes. Cada semana, además del audio de la homilía dominical, estará disponible en el sitio de LIPA un comentario a las lecturas de la Liturgia del Domingo, como así también a las lecturas de la semana.


 

SLOVENŠČINA

»Milost Gospoda Jezusa Kristusa in ljubezen Boga in občestvo Svetega Duha z vami vsemi!« (2 Kor 13,13)

Te Pavlove besede so znova postale začetek bogoslužja.

Tudi bizantinska Cerkev začne bogoslužje s prepevanjem: »Blagoslovljeno kraljestvo Očeta, Sina in Svetega Duha.« V bogoslužje vstopimo s tem življenjem Svete Trojice.

Bogoslužje je dar tega življenja, hrana tega življenja, uresničenje tega življenja in nas usposablja, da tudi mi postajamo njegovo razodetje.

To je dar in mi postajamo dar.

Ta trinitarični obrazec, ki je tudi krstni obrazec, je podlaga za naše krščansko bivanje, v smislu, da je izpolnitev in tudi vsebina našega poslanstva.

Poslani smo, Vstali Kristus pošilja, in to je poslanstvo.

Ta duhovna resničnost je morda nekoliko potonila v pozabo, ker raje govorimo o »znamenju križa«.

Neki duhovnik mi je pripovedoval, da je bil na začetku svojega duhovništva prepričan, da »znamenje križa« izraža resničnost življenja, prejetega pri krstu, potem pa je skozi leta pastoralnega delovanja spoznal, da temu sploh ni tako. Začel je spraševati ljudi, kaj zanje pomeni križ, Križani? Spoznal je, da v križu nihče ni videl prehoda v naše novo življenje – ni videl daru, ki nas odpre za vstajenje novega bivanja.

Vsi so se ustavili pri križevem potu, kjer je poudarjeno trpljenje ter v človeku prebuja občutek spokornosti in krivde.

Znamenje križa pa je prehod, vstop, prerojenje, vstajenje, prebuditev po smrti v krstu, saj je križ največje razodetje, kdo je zares Bog in kdo je zares človek.

Tako je ponavljal Berdjajev.

Tam se razodene Bog, ki se daruje, izroča. Hkrati pa se razodene človek, ki ga zavrne, ubije. V Kristusu se razodene tudi človek, ki v Božjem Sinu postane dar, popolno sprejemanje Očetove volje. Križ postane kraj »bogočloveškosti«, kraj naše udeleženosti pri tem sinovskem načinu življenja, prav po zaslugi delovanja Svetega Duha.

Kristusova smrt, Križani je pot našega prerojenja, našega vstajenja.

Pavel natančno razloži to veliko resnico: s križanim Kristusom je bil križan tudi »naš stari človek« (prim. Rim 6,6). Na drugem mestu pove še jasneje: »Skupaj s Kristusom sem križan; ne živim več jaz, ampak Kristus živi v meni. Kolikor pa zdaj živim v mesu, živim v veri v Božjega Sina, ki me je vzljubil in daroval zame sam sebe« (Gal 2,19-20).

Za nas kristjane je torej križ prehod – v Kristusu – iz sužnosti greha v svobodo Božjih otrok. V tem vstajenju se prebudimo z življenjem Svetega Duha, ki se v nas izrazi v eni sami besedi, ki jo lahko izrečemo kot novokrščenci, kot novorojeni: »Aba, Oče!« (Gal 4,6) – očka.

Zgodila se je velika sprememba. Iz te novosti življenja, povezanega s to prvo besedo, izhaja nova miselnost, nov način spoznavanja, ki je način ljubezni.

Rojen je novi človek, ki ima izkušnjo Kristusove ljubezni in nov um, ki presega vsako spoznanje, saj je »izpopolnjen do vse Božje polnosti« (prim. Ef 3,19).

Gre za spoznanje, ki ni več ločeno od ljubezni in občestva, saj je spoznanje v Svetem Duhu, ki je Gospod občestva. Spoznanje sebe in Boga, in to spoznanje je neločljivo od ljubezni. Ko rečemo »Oče«, doživljamo, da smo v občestvu z drugimi, saj je isti Duh, ki v nas kliče »Aba«, Duh občestva, ki nam da izgovarjati »Oče naš«, kjer beseda sama pove naše polno uresničenje v občestvu. Brez Svetega Duha je pridevnik »naš« v nasprotju, v konfliktu, v protislovju z »moj«. V Svetem Duhu pa je »moj« v polnosti uresničen v »naš«. In »naš« je resnično Oče.

Kakor »jaz« ni pred tem, da sem sin, tako biti sin pomeni uresničiti svoje življenje, svoj jaz v občestvu z drugimi. Ne gre za to, da najprej sem, potem pa postanem Božji sin. Mrtev sem. Jaz, ki je bil vezan sam nase in zaznamovan z Adamovim grehom, je umrl, ne obstaja več, bil je pokopan s Kristusom in se v prehodu groba prebudi.

»S krstom smo bili torej skupaj z njim pokopani v smrt, da bi prav tako, kakor je Kristus v moči Očetovega veličastva vstal od mrtvih, tudi mi stopili na pot novosti življenja« (Rim 6,4): to je jaz, ki se prepozna v Kristusu kot Božji otrok, sin v Sinu.

Sin ima jaz, ki se v polnosti uresničuje v občestvu z drugimi, saj je Sinov jaz, torej se uresničuje v občestvu z brati in sestrami (prim. 1 Jn 1,7).

Zaradi različnih filozofij in mnogih struktur, ki smo jih skozi zgodovino prevzeli od sveta, smo občestvo pahnili v pozabo, in skupaj z njim smo pahnili v pozabo tudi odnos.

Ljubezen smo izrinili iz ontologije, iz našega izvora in jo prestavili na cilj, ki ga je treba doseči ter sprejeli vase zaverovano krščanstvo, kjer se najdeva »jaz in moj Jezus«.

Potem pa smo se po zakonu nihala usmerili v skupnost, k temu, da bi bili skupaj, da bi bili eno, vendar to ni bilo izraz občestva, ampak rezultat pravil, discipline, organiziranih struktur, predvsem pa našega truda.

Če pa se od osebe v teološko trinitaričnem, občestvenem smislu znova vrnemo k posamezniku, kot izrazu svoje narave, potem oživljamo truplo, tistega človeka, ki je umrl v krstni vodi.

Zgodovina pričuje, da se je to oživljanje človeka po naravi žal zgodilo. Oživlja se človek po naravi, zato si ga ni mogoče zamišljati drugače kot idealistično.

O človeku po naravi ni mogoče razmišljati drugače kot da izhajamo iz tega, kar človek v resnici je: namreč ranjeno bitje, ki mu je usojeno umreti in je zato padel v zanko zaskrbljenosti zase. Na človeka ne moremo gledati kot da ne bi obstajalo tretje poglavje Prve Mojzesove knjige. S krstom je bil ta človek uničen, mi pa ga hočemo obnoviti (prim. Gal 2,18).

Zato se začnemo zelo truditi na religioznem in vsakem drugem področju. Vendar je jasno, da nihče ne bo nikoli postal sin zahvaljujoč takemu prizadevanju, saj nihče še nikoli ni postal sin po postavi, in nikoli se nihče ni opravičil sam (prim. Gal 2,16).

Zaradi takšnega načina ravnanja danes doživljamo sušo, neplodnost, utrujenost, živčnost in ljudje odhajajo. Mnogi med njimi dejansko pravijo, da ne vidijo kaj dosti razlike med Cerkvijo in svetom, če že ne rečejo: glej, kako grdo ravnajo drug z drugim in kako slabo živijo!

Ko oživljamo človeka po naravi, oživljamo ranjenega, padlega človeka, ki hodi proti smrti. Posledično se sproži mehanizem: kako mu pomagati, kako ga zdraviti, kaj naj storimo, da izboljšamo njegov položaj?

Če Sveta Trojica ne zadeva življenja, novega življenja in njegovega uma, ki je um zastonjske ljubezni, potem gre za ideologijo, ki ljudi prej ali slej utrudi in izčrpa, tudi tiste, ki jo spodbujajo.

V resnici pa gre za Kristusa, ki je milost: razodela se je milost, »ki rešuje vse ljudi« (Tit 2,11).

To je dar, ki nas preko smrti popelje v novo bivanje, bivanje Božjih otrok, otrok Boga, ki je Oče usmiljenja in večne ljubezni. To je dar, zaradi katerega sem sin, ljubljeni sin, kajti življenje, ki mi je bilo izročeno prav v uri smrti (prim. Jn 19,30), je življenje občestva, daru samega sebe.

 

SLOVENŠČINA je rubrika centra Aletti, ki je na voljo vsako soboto (v italijanščini že v petek). Vsak teden bo na spletni strani LIPE poleg nedeljske homilije v zvočni obliki (v italijanščini) na voljo tudi poglobitev Božje besede nedeljske ali praznične svete maše.